Volontariato in Etiopia: Caramelle non ne diamo

È sempre un dilemma quando si va in giro per l’Africa. Cedere o meno alle richieste di caramelle dei bambini? Io sono del partito del No. Arrivare in un luogo e distribuire dolciumi significa demolire l’orgoglio, educare all’elemosina e apportare alla loro dieta zuccheri raffinati non salutari, anche a livello di igiene orale. È ovviamente difficile resistere alle richieste di un bambino e privarsi della gioia nei suoi occhi per un piccolo regalo. Suggerisco, invece, di aiutare in maniera diversa, magari sostenendo l’economia locale e acquistando prodotti del villaggio.
L’articolo di seguito è dei volontari Davide e Laura, che hanno raccontato molto bene delle situazioni di questo tipo. L’articolo è apparso su www.volontariatoetiopia.org, sito web gestito da Paolo Caneva, un caro amico italiano che vive in Etiopia da molti anni e ha dedicato la sua vita all’impegno a favore delle popolazioni locali.
Io stessa ho potuto visitare diverse realtà di volontariato in Etiopia – di cui ho anche scritto su questo sito https://cafeafrica.it/2012/03/26/etiopia-un-viaggio-nel-cuore-delluomo/ – e ritengo che sia un’esperienza di vita indimenticabile e che fa sorgere molti quesiti, così come fa sciogliere molti falsi problemi che ci creiamo, presi dalla vita quotidiana.
BURAT, OVVERO IL BUIO CHE INSEGNA
INTRO
Nel caso in piena estate europea vi dovesse venire una voglia sfrenata di marcare visita alle spiaggetonnare delle nostre coste ed imbarcarvi in direzione Addis Abeba (“Fiore Nuovo” in lingua amarica, nome che per fare pratica di eufemismi definirei non completamente giustificato), sappiate che un Toyota bianco potrebbe essere parcheggiato lì ad aspettarvi, con alla guida una faccia friulana trapiantata in Etiopia da quasi tre lustri in mezzo alle orde di operai cinesi (sì, in Africa sono cinesi pure gli operai e non solo le ditte che vincono gli appalti). E, sempre nel caso in cui dopo quasi 4 ore e 30 in direzione Sud-Ovest non vi foste ancora stufati dei sobbalzi delle strade (asfaltate, ma niente di serio) cinesi, giunti ad un paesone di nome Emdibir potrebbe esistere sulla vostra destra una strada in leggera salita, questa sì completamente in sassi e terra battuta. E, di nuovo, nel caso nei 50 panoramici minuti successivi le sospensioni del Toyota avessero testardamente deciso di non abbandonarvi, ecco che sì, in quell’esatto momento potreste vedere le capanne di legno, fango e paglia a bordo strada farsi vagamente più fitte fino a farvi apparire la parvenza di un villaggetto in evidente esplosione demografica: Burat. È così che è cominciata l’avventura mia e di Laura, in un agosto che in Italia verrà ricordato malvolentieri per caldo e catastrofi e che invece nelle nostre menti rimarrà per sempre associato allo sbarco su un pianeta sconosciuto: lei, alla prima presenza africana in assoluto, ed io, vagamente più esperto con in valigia i ricordi di lontani marzi tanzaniani e gennai senegalesi, rimasti a luccicare a tinte forti nei cassetti della memoria nonostante i tentativi di centrifuga di lunghi mesi di lavoro italiani.
MA SIAMO SICURI DI ESSERE IN AFRICA?
La prima cosa a sorprendere, una volta atterrati in Etiopia, è la vegetazione. Sarà la stagione delle piogge, sarà l’altitudine (Addis, come Burat, parte da base d’asta 2400m slm), ma tutto è incredibilmente verde e rigoglioso, tale da farmi sembrare anni luce lontani i secchi paesaggi della savana a cui il Continente Nero mi aveva abituato.
Il paesaggio è dominato dal verde. Sicomori, mimosa, perfino alberi di Stelle di Natale, per quanto fuori stagione per le nostre abitudini, oltre al re incontrastato del paesaggio, ammirabile non appena tra i vari saliscendi in terra battuta si riesca ad aprire uno spiraglio per ammirare la profondità delle vallate: il falsobanano, dalla cui corteccia gli etiopi ricavano cibo.
Ed allo stesso modo è apparso ai nostri occhi lo spazio della missione di Burat, una volta terminato il viaggio di cui sopra: verde, verde, terribilmente verde, al punto da chiedersi veramente se il pilota non avesse sbagliato continente di atterraggio. Breve nota descrittiva per contestualizzare il tutto: la missione è attualmente portata avanti da 4 suore indiane (del Kerala, per esattezza geografica), ed è fisicamente divisibile in 3 spazi comunicanti. Alla estrema destra, la casa delle sisters ed un piccolo ma spazioso caseggiato per ospitare i volontari; comunicante, l’edificio della clinica, che consta di ambulatori, magazzino medicinali, varie sale per visite generaliste e non, più abitazioni del personale affiliato; dal lato opposto, chiesa cattolica e casa del prete locale. Il tutto chiaramente intervallato da ampissimi spazi, campetti coltivati, giardini e prati verdi dove mucche e capre svolgono quotidianamente la doppia funzione di tagliaerba e concimanti, a dimostrazione che, qui, lo spazio è l’ultimo dei problemi. Poco distante, circa 200 m di cammino attraversando il villaggio, l’enorme spazio della scuola, che accoglie circa 750 bambini fino all’ottava classe.
LA SCUOLA
Non può che partire da qui il nostro racconto, noi che non essendo personale sanitario abbiamo cercato di renderci utili nelle maniere più disparate: la scuola di Burat è probabilmente la più fatiscente vista in vita mia, lontana sia da altre missioni etiopi in cui ci è capitato di fare velocemente tappa per dormire nei vari spostamenti (Getche, Zizencho) sia dalle realtà che avevo potuto osservare in altri paesi africani. Muri scrostati e vetri rotti, così come panchine e banchi. Per entrare in aula, era necessario attraversare erba alta e fango. Non il massimo, ecco, ma più che altro materiale su cui lavorare per chiunque abbia tempo, voglia e mezzi nel prossimo futuro. Durante il periodo estivo europeo, che coincide con la stagione delle piogge e la parte finale dell’anno secondo il calendario etiope, in Etiopia le scuole sono chiuse, così nei giorni di nostra presenza a Burat si svolgeva solamente un’oretta di lezione mattutina guidata da Sister Teresa. La base di partecipazione era volontaria, per cui sicuramente non c’era il pienone, anche se i bimbi si presentavano con una motivazione ai nostri occhi ammirabile. È capitato anche a noi di dover tenere lezione in prima persona, in qualche giornata in cui la Sister non era disponibile. È stato un clamoroso divertimento, perché nonostante qualche difficoltà di comunicazione (noi non conosciamo l’amarico, ed il livello di inglese di bambini etiopi non è sicuramente eccellente) abbiamo trovato entusiasmo, partecipazione ed anche intraprendenza. Oltre alla voglia di intascarsi i nostri pennarelli, chiaramente. Una volta finito, il tempo passato a giocare era chiaramente molto superiore, ed anche ancor più divertente.
I bambini etiopi hanno i tratti comportamentali tipici degli altri bambini africani, con un’eccezione che verrà approfondita dopo (vedi paragrafo caramella yellem): appena ti vedono, ti corrono appresso come se fosse questione di vita o di morte, ti prendono la mano e vengono con te, dovunque tu stia andando. Capitava spesso che io e Laura partissimo per camminate lunghe qualche chilometro, e che bimbi ci seguissero dal primo metro senza interessarsi al dove stessimo andando. Bimbi a cui si aggiungono altri bimbi a cui si aggiungono altri bimbi ancora, spesso tutti per mano in enormi trecce che finivano per occupare tutta la sede stradale.
DONKEYS&WOMEN, LA CULTURA ETIOPE
Sì, asini e donne. Sono decisamente loro a rendere possibile la vita in Etiopia, a caricarsi sulle spalle il peso (non è una figura retorica) della sussistenza a quelle latitudini. Abbiamo visto donne piegate in avanti dai carichi enormi che portavano sulla schiena, zeppi di cibo, panni, a volte sacchi di materiale per costruire (legno, foglie, paglia). È all’ordine del giorno che donne in erba portino lo stesso fagotto arrotolato con dentro il fratellino o la sorellina non ancora in grado di camminare, il tutto senza chiaramente dire una parola: al limite, ogni tanto si rifà il nodo al fagotto, e via andare. Donne ai torrenti a lavare ed asciugare i vestiti sporchi, le stesse donne che vedevamo poi rincasare a 5/6 km di distanza. Donne ai mercati, solo esclusivamente donne a vendere e comprare avocado, sementi, frutta secca, banane, farina, uova, pane, il tutto rigorosamente raccolto da donne. Incontravano il nostro sguardo molto più raramente di bambini e uomini, e spesso eravamo noi a dover rivolgere il primo “Selam” affinché ci sentissimo salutare di rimando. Dietro quegli occhi sfuggenti non sapevamo cosa leggere, ed allora li abbassavamo per pudore, noi così fortunati, così poco avvezzi ed inclini a quella fatica incessante. La camminata lunghissima come stile di vita, i piedi come unico mezzo di locomozione.
Se tra i lettori dovesse esserci qualche buddhista, invece, non può non pensare che per reincarnarsi asino in Etiopia si debba avere per forza costellato di peccati capitali la vita precedente. Abbiamo visto queste povere bestie schiattare letteralmente di fatica, frustati in maniera spesso e volentieri semi gratuita, ingobbiti nel portare sulla schiena fagotti enormi di roba, in primis le famigerate taniche gialle. Taniche che si riempiono e si svuotano d’acqua probabilmente da generazioni, sempre le stesse: acqua che veniva raccolta dai torrenti o direttamente dalle pozzanghere a terra. E gli uomini? Spesso abbiamo cercato risposte a questa domanda cercando di non scadere nella retorica, tenendo appiccicato in ogni angolo della scatola cranica il post-it “Non giudicare, non è in 2 settimane che si capisce la cultura di un popolo”. Tuttavia, bisogna ammettere che l’impressione è stata abbastanza negativa. Difficile, molto difficile incontrare uomini atti al trasporto di materiale pesante, che invece finivano sempre e solo sulle spalle delle due categorie precedenti; li si trovava spesso lì, a bordo strada, nell’atto di discutere o masticare foglie di chat. Nel migliore dei casi, costruire palizzate attorno alle case o portare al pascolo capre e mucche, quasi sempre aiutati dai ragazzini di famiglia. Nel complesso, il non generalizzare il tutto ad un laconico “Non fanno una mazza tutto il giorno” è stato abbastanza difficile, ma per beneficio del dubbio abbiamo sospeso il giudizio fino ad approfondimenti.
E NOI? CARAMELLA YELLEM
Anche per chi non è personale sanitario, ci sono diverse occasioni per potersi sentire utili a Burat. Se della scuola abbiamo già parlato, e se sulla costruzione di centinaia di piccole bustine di carta per contenimento medicinali da parte di Laura non c’è margine per dilungarsi molto, va detto anche che nei vari campi attorno all’enorme spazio della scuola ed alla casa delle sisters si coltivano patate, verdura e sementi vari. Essendo la stagione delle piogge il momento ideale per la semina, mi sono dedicato in prima persona e con buona lena al lavoro agricolo, per altro un altro campo del quale le mie competenze si fermavano a pochi giorni di esperienza passata. Ma, visti gli strumenti non esattamente futuristici che si utilizzano a quella latitudini, si può dire che non serve una laurea in scienze agrarie ma solamente olio di gomito. Tant’è, mi sono affiancato a qualche contadino (loro, sì, non si possono affatto giudicare nullatenenti) a strappare erbacce a mani nude o a dissestare la terra con un piccone. Lavoro magari poco qualificato ma abbastanza tosto, che allo stesso tempo mi ha permesso lunghe ore di riflessione con nelle orecchie qualche pezzo maestoso che il mio fedele Ipod sceglieva di regalarmi. Il lavoro segue i cicli solari, se è vero che l’elettricità era più assente che presente: alle 19, puntualmente, sul sole calava l’accetta inesorabile delle tenebre e ci consegnava ad una vita d’altri tempi. Buio, buio totale. Ma non il buio europeo, no, dove una qualche forma di inquinamento luminoso la si trova sempre, anche nelle notti più cieche: il buio quello vero, quello in cui ti senti ospite e non capisci più se la causa della tua lieve pelle d’oca è l’aria fresca oppure la volta stellata da sballo totale che ti è consegnata totalmente gratis sopra la testa. Quel buio lì, insomma: il buio che insegna. Al netto di tutto ciò, il centro delle nostre giornate rimanevano le piccole palle di neve nera che si incontravano non appena varcato il cancelletto di uscita della missione: proprio come la neve, i bimbi cominciavano ad arrivare alla spicciolata vedendoti da lontano trasformandosi ben presto in una valanga di entusiasmo, urla e richieste, arrivando a litigare per prenderti la mano. E qui, su questa parolina non casualmente inserita, “richieste”, mi sento di sottolineare una nota dolente. Sebbene non mi possa –ribadisco- considerare un esperto d’Africa e sebbene non sia fattibile – ribadisco ulteriormente- definire una cultura millenaria dopo una così breve coesistenza, in nessun altro luogo africano avevo mai trovato la stessa incessante petulante litania di richieste come qui. Parliamo, beninteso, di una parte dei bambini, non di tutti loro: ma, vedendo come fosse poi ripetuto questo comportamento da parte degli adulti, la cosa è apparsa ai nostri occhi come un vizio ben radicato, praticamente strutturale. Ho trovato, sinceramente, abbastanza grave che bimbi africani che non conoscono l’inglese (come non lo conoscono i nostri bimbi ed in molti casi nemmeno gli adulti, non è quello il problema) sappiano però una parola di italiano, e che quella parola non sia “grazie”, “buongiorno”, nemmeno “cosa dici” (come non mancano di scimmiottare i colleghi brasiliani in italiano stentato e gestualità accentuata ogni volta che supero l’Atlantico), ma bensì “Caramella”. “Caramella”, pronunciata così, a mano aperta ed occhi fissi. Seguita da “chocolate”, “shoes”, “pencil”, “pen”, “libs” (vestiti), “birr” (la moneta locale). Un’incessante litania di richieste, in ogni momento del giorno ed in ogni condizione.
L’impressione, corroborata da fatti, è che molti non sapessero nemmeno cosa fossero le pen, pencil, (“caramella” sì, lo sapevano tutti), o che nella migliore delle ipotesi non servisse loro, ma che bastasse chiedere. E, nel caso si decidesse di dare una penna ad un bimbo (diamine, le penne servono a scrivere, cosa può essere da noi sponsorizzato più dell’istruzione in un posto del genere?), ecco che il giorno dopo quello stesso bimbo tornava a chiedere, di nuovo. La penna del giorno prima? Spallucce, sparita. Ora, al di là che di bimbi stiamo parlando, l’impressione è stata molto sgradevole, e mi sento di fare una riflessione su noi volontari, di ogni razza e fede, che scegliamo di trascorrere un periodo a queste latitudini. Nessuno di noi salverà l’Africa in due settimane, e ritengo che sarà sempre maggiore l’insegnamento che ci portiamo a casa noi rispetto a quanto riusciamo a lasciare sul posto. Ma, se si crede in quello che rappresenta la nostra presenza lì, dobbiamo quantomeno essere forieri di buon comportamento ed evitare di alimentare certi vizi (perché di questi si tratta): in primis, per l’appunto, il chiedere per il gusto di chiedere. Penso che il volontario con coscienza debba regalare la cosa più preziosa che tutti noi abbiamo, l’unica nella vita che è totalmente a perdere: il tempo. Regalare e dedicare tempo a queste persone, a quei bambini. Tempo, non oggetti. Tempo, non caramelle. Regalare caramelle non fa altro che alimentare un bisogno che non esiste, ed abituare le persone a chiedere. Se lo scopo del volontario è distribuire caramelle, francamente potremmo essere rimpiazzati agevolmente da questo. Se, come è successo a noi, si sono comunque portati degli oggetti (nel nostro caso, qualche maglietta) da lasciare a chi certamente ne ha più bisogno di noi, il nostro consiglio è lasciarlo alle suore: loro, meglio di noi, possono organizzarsi affinché arrivino a chi ne ha bisogno e non a chi ha semplicemente più faccia tosta di chiedere. E se i bambini continuano a chiedere? “Caramella”, “Caramella”, “Caramella”….. ? Una sola risposta: “Caramella Yellem”. Non ne abbiamo. Fidatevi, non se ne andranno, rimarranno a giocare. E avrete fatto loro un presente più grande rispetto al regalare l’intera Sperlari.
IL LAGO DI ZWAY
L’ultimo giorno, intero per via del volo notturno che ci avrebbe riportati in Italia, è l’unico che abbiamo speso da veri e propri turisti: ed il merito è stato di Paolo, quella faccia friulana di cui avevamo accennato all’inizio, che per poco si è offerto di scarrozzarci fino al grande Lago di Zway, prima di fare rotta verso Addis Abeba. Che dire, il paesaggio è decisamente cambiato nella discesa verso i “soli” 1600 m slm del lago, e la giornata non ha tradito le attese. Ci siamo lanciati in un giro in barca con una guida locale, in uno scenario naturalistico veramente speciale: una quantità incredibile di volatili (marabù, uccelli tessitori, pellicani, ibis, martin pescatori ed un paio di splendide aquile pescatrici), oltre ad una famiglia di ippopotami la cui testa spuntava minacciosa dal pelo dell’acqua. Uno scenario suggestivo in un’acqua estremamente densa e fangosa per via delle piogge, che ha lasciato prima del volo di rientro quel sapore agrodolce di un paese lontano, rimasto alle origini. Un paese con un potenziale enorme da tirare fuori in qualche modo, in maniera non invasiva, umile ma costruttivamente lungimirante.
Torneremo, chissà quando e come, senza caramelle e con ancora più entusiasmo. Davide&Laura
Che bel “tuffo” che ho fatto, grazie a voi! Chissà che meraviglia i luogo e le persone…un disintossicarsi davvero!
Quoto, niente caramella.
🙂